Più che di una lettera ai giovani invitandoli a lasciare il nostro paese (come quella pubblicata su un quotidiano a firma di Pier Luigi Celli, direttore generale della Luiss, che è una superuniversità privata di eccellenza), abbiamo bisogno di una sana autocritica e di individuare, se ci sono e quali sono, delle buone ragioni per restare. Ce ne sono almeno cinque, a mio parere. La prima è che nel nostro paese, povero di risorse e carico di debiti, esiste un capitale che non è da sottovalutare. E’ una rete di protezione, che nessuna marmellata mediatica è capace di inficiare. Lo si può chiamare capitale sociale, capitale relazionale, capitale delle reti che rivelano tenuta nonostante una situazione economica difficile. Il mondo non è riducibile a mercato, altrimenti non capiremmo perché, nonostante tutto, ci dichiariamo soddisfatti della nostra vita personale. La seconda ragione, che dovrebbe interessare soprattutto i più giovani, è che alla fine l’anagrafe vincerà. Non è una cinica affermazione, ma è ormai al capolinea in Italia il tema della successione, ovunque: imprenditoriale, manageriale, politica, culturale. Nonostante la gerontocrazia, il potere passerà ai più giovani, soprattutto se lo vorranno davvero conquistare. La terza ragione sta nello sguardo: l’entusiasmo dei giovani, la loro preparazione, al di là del qualunquismo paternalistico degli anziani, la vincerà nella costruzione del futuro, anche se accompagnata dalla sapienza dei più esperti. La quarta ragione è che in Italia abbiamo un modello di sviluppo che può solo migliorare, una tenuta che tutti ci invidiano, una ricchezza di inventiva e di innovazione, basata sui piccoli e sui tanti animati da spiriti imprenditoriali, che da nessuna concessione al lamento vogliono farsi sopraffare. Nonostante la crisi la voglia di fare e realizzare tiene ancora. Il quinto passo è il bilanciamento. Una delle cose che gli stranieri ancora ci invidiano è la qualità della vita, è la voglia di star bene. E questo è in sintonia con un nuovo modo di intendere il rapporto tra vita e lavoro. Il work life balance non è solo una tecnica, per alcuni di matrice anglosassone, da sbandierare, ma una nostra filosofia, un nostro stile di vita, che molti vorrebbero adottare. Certo, c’è chi rema contro, primi tra tutti coloro che non rispettano mai le regole, anche quelle che per altri sono elementari. Credo comunque che ce la possiamo fare, e restare. A volte c’è la sensazione impotente che manchi la fiducia e la motivazione. Ma una cosa è certa: che non abbiamo più bisogno nè di cinismo nè di autodistruzione. (Editoriale pubblicato su Io Lavoro di Italia Oggi, 7 dicembre 09)