14.04.2008
A proposito di precari: la speranza di Alessandro Magno

di Paolo Iacci

Prima della partenza per un’importante e rischiosa spedizione militare, Alessandro Magno si informò sulla situazione dei suoi amici e distribuì loro una fattoria a questo, a quello un villaggio, a quell’altro le rendite di un borgo o di un porto. E quando già il complesso di tutti i beni regali era stato esaurito e assegnato, Perdicca gli disse: “Ma a te, o Re, cosa riservi?”. Ed egli rispose: “La speranza”.
A leggere i resoconti sul precariato il sentimento forte che si respira è quello, depressivo, della perdita della speranza. Le nuove generazioni sono le prime che si trovano in una situazione paradossale: sono cresciute e si sono formate – a scuola e in famiglia – sulla base dei canoni che avevano segnato la vita dei loro nonni e dei loro padri. Ma tutto questo è svanito nel momento in cui queste generazioni hanno dovuto affrontare la vita. Sfumata la sicurezza del posto fisso, la certezza che la loro vita sarebbe stata migliore di quella dei loro padri, la culla tranquillizzante delle grandi ideologie, oggi, soprattutto la nuova generazione dei trentenni è costretta a vagare sola e senza prospettive, priva delle bussole che avevano guidato le generazioni precedenti. Costretti ad attendere – se mai verrà – il loro turno, omologati dalle leggi dell’anagrafe e della cooptazione. È così che nel nostro Paese è stato marginalizzato il merito: facendo vincere le conoscenze sulla conoscenza, mortificando i talenti, rendendo più statica e più vecchia la società italiana e la sua classe dirigente. Il rapporto tra la generazione degli under 35 con la politica e con il mondo del lavoro è sempre più difficile perché si trova in una contraddizione che non riesce a sciogliere. E’ stata allevata pensando di aver diritto ad un mondo di celluloide e si ritrova in un mondo di cartapesta. La vecchia classe dirigente, e in qualche modo, anche noi, ognuno di noi, l’aveva illusa riguardo la possibilità di adire facilmente ad una vita ricca, semplice e felice. Invece si ritrova in un mondo ricco più di contraddizioni che di speranze. Forse dobbiamo invertire la tendenza. Cominciare a dire delle verità, anche se scomode. Esempio: il precariato. In Italia, si vuole sconfiggere il precariato negandolo. L’ultima Finanziaria contiene un esempio clamoroso di ciò che affermo.

Lo Stato è il più grande datore di lavoro precario? Non c’è problema: ci sono 300mila persone che sono state utilizzate per necessità specifiche, perché non si è riusciti a spostare e riconvertire centinaia di migliaia di lavoratori pubblici inutilmente tenuti a non produrre nulla in posti inutili? Non è un problema. Basta incrementare il peso fiscale, mantenere inalterato il debito pubblico ed assumerli tutti.
Per far cosa?! Eh, no. Questo è un altro problema. Della razionalizzazione della spesa pubblica ce ne occuperemo in un altro momento, il tema non fa audience. Che intanto i 300mila precari entrino nella pubblica amministrazione, anche se si era scritto e giurato ovunque che l’apparato pubblico doveva diminuire. Ma nella stessa finanziaria si afferma che vanno trovate risorse, oggi non disponibili, per il sostegno all’occupazione e al cosiddetto “nuovo welfare”: e allora?!
Forse potremo riscattarci solo avendo il coraggio di opporre verità a false speranze. La nuova generazione, e tutti noi con essa, potrà riscattarsi solo costruendo una nuova mappa di valori, un nuovo pensiero comune. I falsi slogan e la retorica, comprensibile ma troppo facile, mi spaventa.
Tutti siamo contro il precariato e le difficoltà di una situazione economica difficile. Ma i problemi non si risolvono semplicemente dividendo il mondo tra cattivi e buoni, certi di essere tra questi ultimi, cercando solo di trovare la nostra personale soluzione al problema. Dobbiamo essere in grado di  affrontare le difficoltà del cammino in gruppo, abbandonando l’individualismo di fine secolo scorso. Occorre battere l’idea, diffusa tra dirigenti pubblici e privati, imprenditori, opinion maker, accademici, che le sorti dell’Italia siano qualcosa di altro rispetto ai propri comportamenti, ai propri giudizi, alle proprie ambizioni. Possiamo riaccendere la speranza, ricostruire il sogno di uno sviluppo possibile, dalle forme nuove.
Se dobbiamo essere flessibili per necessità, possiamo ancora essere felici per scelta.