08.05.2011
Il lavoro non è in declino ma non è figlio automatico della crescita

 Per l’87% degli italiani la prima preoccupazione è la disoccupazione. E questo accade anche nei territori dove il lavoro non manca, perché la paura e l’incertezza sono contagiose. Nonostante questo sentimento diffuso, il lavoro è al vertice dei pensieri delle persone, ma la politica sembra non accorgersene. Per alcuni, bisogna aspettare la crescita dell’economia, che magicamente trascinerebbe con sé il lavoro. Ma il nostro Paese non sta dando in questo momento segnali che altri Paesi più lungimiranti stanno manifestando, con percentuali del 2-3% del Pil, mentre noi ci arrabattiamo per superare un modesto 1%. L’attesa di una messianica ripresa rischia in ogni caso di deludere, perché, soprattutto quest’anno, avverrà a spese dei posti di lavoro. Anzi, ci dovremo abituare nei prossimi mesi e anni a uno sviluppo senza un equivalente aumento degli occupati. Ci avviamo verso la “Jobless society”, o il lavoro prima o poi crescerà? Non essendo figlio automatico della crescita, il lavoro ci sarà se verranno adottate politiche specifiche sul suo mercato e delle politiche attive per combattere la disoccupazione. Non sarà facile, ma sarà possibile solo se il lavoro riconquisterà un posto strategico nell’agenda della politica. In sintesi, sono queste le questioni da mettere in cima alla nuova agenda del lavoro. Innanzitutto, la lotta alla precarietà, che è figlia di una riforma del lavoro interrotta, che si è fermata a metà. Così ci restano i contratti temporanei, a progetto o in somministrazione, e molte altre formule non sempre correttamente usate, in barba ai limiti della stabilizzazione, e l’assenza quasi totale di una cornice di diritti minimi di cittadinanza, che pure erano previsti dai programmi della riforma. Le tutele necessarie si chiamano Statuto dei lavori ed eventualmente contratto unico a tutele crescenti. Non è possibile maltrattare un paio di generazioni di giovani, spesso laureati e formati, nell’assoluta indifferenza. Le infrastrutture del mercato cominciano a funzionare, ma i canali informali come le raccomandazioni continuano a spopolare. Serve una campagna straordinaria di orientamento delle risorse sprecate, siano esse giovani, ma anche donne e “over 45”, che non sono numeri da rottamare, ma persone in carne e ossa, difficili da formare. L’orientamento serve ai giovani, ma deve anche occuparsi di tutte le persone oggi molto a rischio, come quelle avanti con gli anni e poco qualificate. Anche i media hanno delle responsabilità nella poca attenzione al mondo del lavoro: se ne occupano quando vi sono i licenziamenti o quando avvengono episodi ai limiti, come un incidente mortale o la vendita di un rene per un posto di lavoro, ma, al di là delle emergenze, non usano sempre tutta la loro potenzialità per contribuire a migliorare le culture del lavoro delle persone. Il lavoro non è in declino, è in declino il suo significato e la sua considerazione. E quando a premiare una carriera non sono il merito o la competenza, ma la furbizia e le amicizie, il lavoro perde il suo senso. Ma non basta. Occorre accompagnare il Paese verso un cambio di culture ormai superate, occorre passare da una mentalità dipendente a una mentalità indipendente, professionale, autonoma, imprenditoriale. Il lavoro dipendente non scomparirà, ma lascerà uno spazio progressivo al lavoro intraprendente, permesso dalle stesse tecnologie e dal web. Questa operazione culturale deve iniziare dentro le scuole: è qui che si formano le persone, oltre che nelle famiglie e nei territori. E trasformare un’antropologia del lavoro come lavoro dipendente nei campi o in fabbrica nel nuovo paradigma dell’intraprendenza non avviene in poco tempo, ma è una prospettiva obbligata. La quale non può essere un “mantra”, uno slogan, un fatto solo culturale, ma il frutto di esempi, di buone pratiche, che si possono creare e raccontare grazie a reti di servizi a favore degli aspiranti intraprenditori. Quello che manca per realizzare delle buone idee non sono sempre e solo i soldi, non determinanti ma che aiutano, ma i servizi di supporto e di consulenza per la nuova imprenditorialità. Infine, è necessario ripristinare l’etica della responsabilità, che è quella di non usare i giovani in chiave di consenso, ma di restituire loro un Paese migliore, più bello e più sano di come l’abbiamo trovato. Serve un patto intergenerazionale tra giovani e adulti, tra adulti e anziani. Che metta al centro il passaggio del testimone, la staffetta tra le generazioni: tra i giovani e i loro padri, fatta di competenze, generosità, memoria; tra gli adulti e gli anziani, che possono ancora offrire il loro contributo di esperienza e di saggezza. Per fare tutto questo, è necessario ridare valore al lavoro, riscoprendo la sua mai sopita centralità. Il lavoro ha costruito le identità e continuerà a farlo. Se ritroverà il suo bagaglio valoriale, il bello, l’utile e il ben fatto, e se non verrà ridotto a pura immagine, a prestigio di facciata, a leva strumentale della fiera delle vanità.