29.05.2013
Senza soldi: il libro di Walter Passerini e Mario Vavassori

Negli ultimi vent’anni gli stipendi degli italiani sono rimasti fermi. E questo non solo ha ridotto fortemente il loro potere d’acquisto, ma ha creato una generazione di cosiddetti working poor, vale a dire una generazione di persone che sono povere pur avendo un lavoro. Se si è poveri lavorando, significa che il valore del lavoro è sceso drammaticamente. Mentre in passato avere un lavoro era di per sé un fattore di dignità e di decoro e garantiva una certa sicurezza, oggi non lo è più: si può formalmente essere classificati nella categoria degli occupati, ma questo non ci protegge dal punto di vista del reddito e della sicurezza sociale. Come se ne esce? E’ questa un’introduzione che si può trovare nel nuovo libro di Walter Passerini e Mario Vavassori, pubblicato da Chiarelettere. Che cerca di indicare alcune sfide per trovare una via di uscita alla questione salariale.
Una vera exit strategy non può che essere complessa e composta da diversi fattori. La molla che deve far prendere sul serio la questione salariale dipende dalla qualità e dalle quantità del ciclo salari-consumi. Non bisogna essere premi Nobel dell’economia per capire che se i salari sono bassi, anche i consumi ne risentono, in una pericolosa spirale al ribasso: se la domanda di beni e servizi è bassa, anche la produzione di ricchezza e di lavoro retribuito sarà bassa. Non è un caso che oggi, di fronte a qualche segnale di recupero della domanda estera, la domanda e i consumi interni sono invece piatti e producono a loro volta stagnazione. È un cane che si morde la coda.
Il circolo vizioso in cui siamo finiti ha delle precise responsabilità. Dobbiamo infatti ringraziare chi ci ha portati ad avere uno dei debiti pubblici più elevati del mondo se, anziché possedere l’agilità della gazzella, restiamo zavorrati a terra come un elefante. Un debito pubblico che ha superato i 2000 miliardi e ha raggiunto il 126 per cento del Pil (Prodotto interno lordo) è un’ipoteca sul futuro. Lo sfondamento per la prima volta della soglia di 2020,7 miliardi di euro di debito pubblico (novembre 2012) rivela tutta la nostra debolezza. E non possiamo consolarci ricordando che l’avanzo primario al netto degli interessi sul debito è positivo: sono proprio gli interessi di circa 80 miliardi di euro l’anno che ci tengono a terra e ci impediscono di volare. Il rapporto debito-Pil va quindi attaccato e rimosso agendo sulla crescita: solo con la ripresa della produzione e della ricchezza sarà possibile tenere a bada il debito, per poi arrivare progressivamente a ridurlo.
Sono diverse le linee di azione su cui la politica e i decisori aziendali dovranno muoversi. La prima è quella di ridare valore al lavoro. Per troppi mestieri la soglia dei 1000 euro al mese è diventata un sogno e una maledizione. Parliamo della precarietà, ma anche dei lavori esecutivi più semplici, degli operai, dei manovali, delle commesse, che rappresentano l’area del lavoro meno pagato, dentro la quale ormai sono finite anche molte professioni a elevato contenuto intellettuale, ma sottopagate e precarie.
Liberare risorse per avere salari netti più elevati è un’altra battaglia di civiltà non più rinviabile. È questa una delle sfide più importanti da vincere. I salari e gli stipendi sono a loro volta soffocati da oneri eccessivi, sia fiscali che contributivi. La differenza tra stipendio lordo e stipendio netto ci colloca ai primi posti al mondo nella classifica del cosiddetto cuneo fiscale. Si tratta di semplificare e di alleggerire gli oneri che riducono i margini di negoziabilità e di incentivazione, senza i quali i sistemi premianti si appiattiscono e soffocano la motivazione al lavoro.
La terza sfida è quella del merito e della produttività. Si sono spese troppe parole e pochissimi fatti su questi due temi. È necessario arrivare a forme di riconoscimento dei risultati della prestazione lavorativa sia individuale che di gruppo, per dare più trasparenza e per togliere discrezionalità e arbitrio alle politiche retributive. È necessario collegare una quota significativa di retribuzione alla performance e alla produttività individuale e aziendale. Le erogazioni a pioggia e gli una tantum unilaterali possono anche essere accolti con piacere dai percettori di buste paga asfittiche e appiattite, ma oggi servono politiche finalizzate a stimolare le prestazioni e la dinamica salariale, per ridare un po’ di ossigeno alle persone, alle famiglie, alle imprese e ai consumi.
Ma tutte queste sfide non saranno possibili senza un nuovo sistema di relazioni industriali e l’arricchimento e l’articolazione dei livelli contrattuali. Lasciando da parte facili, quanto inutili, demagogie, servono più partecipazione dei lavoratori ai destini del proprio lavoro e della propria impresa, anche attraverso forme di coinvolgimento dei dipendenti; più trasparenza nelle politiche aziendali, con percorsi di carriera finalizzati e chiari; più aderenza e attenzione alla realtà e alla struttura imprenditoriale italiana che, è sempre bene ricordare, è fatta per oltre il 90-95 per cento di piccole e piccolissime imprese.
Crediamo però che, al di là delle tecniche contrattuali, delle misure economiche e delle nuove relazioni industriali, sia indispensabile dichiarare una vera e propria battaglia culturale a favore del lavoro in tutte le sue forme e manifestazioni. Il lavoro per i nostri padri era un fattore di dignità, di promozione e di coesione sociale. Le crisi sono state battute grazie al contributo di tutti, fondato sul valore del lavoro e delle diverse professionalità, da quello manuale più umile sino a quelli intellettuali e di maggiore responsabilità. Il lavoro deve tornare al centro della discussione e delle priorità. E avrà più valore e sarà pagato meglio e adeguatamente solo se tornerà a essere il baricentro di una nuova crescita e di un nuovo sviluppo sociale.