08.02.2013
Le tre sfide dell’università per riportare i giovani nel mondo della formazione

Si torna a parlare di crisi della formazione sulla base di dati drammatici: i ragazzi non si iscrivono ai corsi di laurea al ritmo di alcuni anni fa. Ma anche i corsi post-diploma non universitari, stentano a decollare. I giovani sembrano sull’orlo di una crisi di fiducia nello studio; le università sembrano incapaci di attrarre le energie migliori, i talenti. E’ una morsa soffocante, che rischia di delegittimare il valore del sapere, nel momento in cui la competizione globale richiede nuove e più ricche competenze. Effettivamente, mentre a parole si fingeva di occuparsi dei Neet (quei due milioni di giovani che non studiano, non lavorano e non sono in formazione), nei templi della conoscenza e negli atenei avveniva una silenziosa erosione, la diaspora dei nuovi drop out, con una perdita di quasi 60mila matricole in dieci anni, come denunciato dal Cun. Non ci si può consolare come ha fatto il ministro dell’Università con la critica al periodo scelto : se si fosse scelto l’anno prima le matricole sarebbero state le stesse di dieci anni dopo, ha detto Francesco Profumo. Nè ci si può rassegnare al calo demografico. E’ vero, come ricordano Almalaurea e Almadiploma, che in 25 anni (1984-2009) in Italia i diciannovenni sono calati del 38%. Sono quasi raddoppiati i diplomati (i diciannovenni che lo hanno conseguito sono passati dal 40% del 1984 al 73% del 2009). Ma a partire dal 2003 il circolo virtuoso del rapporto tra diplomati e immatricolati si è inceppato, riducendosi di quasi 10 punti (dal 72,6% al 63,3%). Oggi i diciannovenni immatricolati rappresentano appena il 29% dei loro coetanei. Tra i motivi del disamore, al di là delle ragioni demografiche, vi è la sfiducia nell’ascensore sociale della formazione; l’impatto negativo con un mercato del lavoro che non premia, anzi precarizza anche i più titolati; una visione provinciale e localistica della competizione che, invece, là fuori, nel mondo, si basa sulla preparazione delle risorse umane, sulle competenze, sulla conoscenza. E’ il senso dello studio che demoralizza, mentre per le generazioni precedenti era il motore del progresso e della promozione sociale. Ma c’è anche un’altra sfida all’orizzonte, quella dei luoghi in cui si produce la formazione del futuro. Siamo così sicuri che il sapere necessario per stare dentro la competizione possa venire prodotto solo dalle università? Nell’era digitale, a quali fonti delle competenze professionali ci si abbevera? Quali sono i nuovi santuari della conoscenza nel mondo? E’ anche questo il sottotesto del dilemma che lacera molti giovani: resto o divento un cervello in fuga?

Le tre sfide. Tre sono le principali azioni che possono invertire l’emorragia dall’apprendimento. La prima è il lancio di una campagna a favore dello studio e del sapere, o meglio, di tutti i saperi: saperi, saperi pratici e saperi critici, recuperando il valore dell’imparare, come succedeva dentro le rinascimentali botteghe artigiane; questa campagna dovrà sfociare nella grande scrematura dei troppi corsi di laurea (oltre 5mila), una bella fetta dei quali perfettamente inutili. La seconda è quella dell’orientamento, che ha bisogno di orientatori professionali e non di predicatori scalzi, anche se volonterosi; le bussole vanno introdotte sia nelle medie inferiori sia negli ultimi anni delle superiori, se vogliamo aiutare i ragazzi a scegliere meglio l’università. La terza si chiama valutazione: non si possono valutare solo i giovani, ma anche le scuole, i professori, le università; un paese che non premia né punisce in modo equo e responsabile uccide la cultura del merito; la vicenda delle borse di studio ne è la triste metafora. Infine, un richiamo alle imprese, che non possono sempre e solo lamentarsi per la debolezza dei giovani. Parlare male dell’università è diventata una moda, un vuoto esorcismo. Abbiamo bisogno di più laureati. Se le imprese facessero monitoraggio e censimento dei fabbisogni occupazionali e formativi, mentre combattono e cambiano il motore in corsa, darebbero un essenziale contributo a un paese che deve ancora diventare sistema.